Non è poi del tutto vero che solo i prodotti migliori siano in grado di sopravvivere nella dura (ma quanto mai mitizzata) realtà del Web 2.0. Quando ho iniziato a scrivere per Trackback l’immagine qui sopra metteva in vetrina le più promettenti startup del periodo… Vediamo cosa è successo oggi, nel 2009.
Meg Pickard, specialista di cultura web, ha scritto un post alquanto interessante sul suo blog, meish dot org, che espone in modo quasi doloroso quanto sia dura sopravvivere lì fuori per uno startup. Sostenute da fondi che ormai son diventati merce rara (c’è stata una bella crisi se non siete stati molto attenti quest’anno), la maggior parte delle imprese del web sono il lavoro di un team di giovani che partono dal basso e tentano, sperano, pregano di costruire un servizio che sia di successo, scalable, e che attiri l’attenzione della stampa. Una certa percentuale di essi in realtà è riuscita in questa operazione, vuoi per merito, vuoi per “posteriore”, ma la maggior parte si accontenta del ricco premio di consolazione: vendere tutto a qualche Google di passaggio. Che poi magari non fa altro che mettere sotto naftalina il progetto, o lo affida non a giovani intraprendenti, ma a qualche praticone o vecchia volpe dell’informatica (il tipico reduce della dot-com bubble del 2000, di solito :D).
La Pickard ci fa scoprire un dettaglio molto particolare, cioè come l’immagine qui sopra, tutt’ora usata in seminari sull’argomento, sia drammaticamente obsoleta. Guardate un po’ qui: i loghi barrati di rosso sono di compagnie fallite, quelli verdi invece appartengono a startup acquisiti da qualche pesce più grosso. L’unico che cambierei è StumbleUpon, che è stato ricomprato dai suoi fondatori.
Il Web 2.0 non è stato tutto rosa e fiori, e a 3 anni dalla coniatura del termine, complice anche la crisi, sta cambiando sotto i nostri occhi.
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